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Sinappe: dal 1° ottobre il lavoro dei detenuti in carcere costerà l’83% in più!

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L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa. La prestazione lavorativa del detenuto deve essere retribuita e il compenso è calcolato in base alla quantità e qualità di lavoro prestato, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi nazionali. Sono riconosciute, inoltre, le medesime garanzie assicurative, contributive e previdenziali di quelle previste in un rapporto di lavoro subordinato.

L’occupazione in carcere (elemento che abbiamo detto essere essenziale del trattamento rieducativo) si pone dunque quale specchio riflesso di una società civile che al contrario non riesce ad assicurare una occupazione al cittadino comune (vedasi il preoccupante tasso di disoccupazione). Abbiamo detto che la prestazione lavorativa va retribuita e l’ammontare delle retribuzione è parametrata a quella dei contratti collettivi riferiti alle singole mansioni.

Tecnicamente, la retribuzione prende il nome di “mercede”. Attorno a tale tema si è sviluppata copiosa giurisprudenza che come al solito ha visto soccombente lo Stato perché – pur facendo lavorare i detenuti all’interno delle strutture – da lungo corso non aveva provveduto ad aggiornare le mercedi. La questione trova il proprio punto di risoluzione con le recenti disposizioni emanate dall’Amministrazione Penitenziaria che stabiliscono come dal primo di ottobre, i parametri delle mercedi saranno aggiornati con un aumento medio di circa 83% di quello precedentemente percepito. Vale a dire che un detenuto che lavora in carcere percepirà un salario medio di circa 7 euro all’ora, giungendo tranquillamente a percepire gli agognati mille euro al mese a cui si aggiunge, a seconda dei casi, tredicesima e quattordicesima mensilità.

Per fugare ogni dubbio specifichiamo che nella quasi totalità dei casi (eccezion fatta
per le lavorazioni effettuate da imprese che assumono detenuti) il datore di lavoro è lo Stato. Da sindacalisti non possiamo non abbracciare il principio per cui il lavoro va
retribuito e la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto. E accogliamo il doveroso aggiornamento delle tariffe anche con serena vicinanza appunto perché crediamo nel valore del lavoro quale strumento riabilitativo del condannato.

Tuttavia come si può non riflettere sul paradosso che contraddistingue la nostra
società: da un lato uno Stato assistenziale che cerca di reintegrare attraverso il lavoro coloro che, delinquendo, lo hanno offeso e oltraggiato, dall’altro lo stesso Stato che in perenne crisi abbandona i cittadini e li lascia al proprio destino con circa 500 euro di pensione minima, con irrisori assegni di invalidità a coloro che non sono più nelle condizioni di lavorare!

Qual è dunque il senso dell’equità? In quale direzione si sta navigando se le tutele per coloro che hanno sbagliato sono infinitamente più ampie di quelle riservate a coloro che, fra infiniti sacrifici, vivono comunque rettamente? E se è vero che la libertà, come valore assoluto, non ha prezzo, la certezza di un lavoro dignitosamente retribuito “dietro le sbarre” potrebbe essere il premio con cui barattare la libertà per chi non ha più nulla da perdere?

Roberto Santini
Segretario generale
Sinappe

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