Legalizzare le droghe leggere è un tema che ricorre spesso in politica e in certo associazionismo. L’aggettivo “leggere” lascia intendere che in fondo non fanno male come quelle pesanti. Ma sarà davvero così? In tanti si sono affannati in queste settimane per la raccolta firme in calce alla proposta di legge popolare sulla legalizzazione della marijuana.
Ma cosa pensa delle droghe leggere chi ogni giorno lavora a stretto contatto con i tossicodipendenti in cura? Ne parla il medico psichiatra Samuele Lambertino, responsabile del reparto di tossicologia dell’Ospedale Maria Luigia di Monticelli Terme.
Dottor Lambertino, da anni si occupa della cura di pazienti tossicodipendenti. Come vede, dal suo punto di vista, lo sviluppo e la diffusione delle droghe soprattutto fra i ragazzi?
“Purtroppo le droghe oggi fanno sempre più parte della nostra quotidianità ed è una problematica che coinvolge ragazzi sempre più giovani. E’, infatti, molto facile che ragazzi, che frequentano le scuole medie, siano già entrati in contatto con coetanei che consumano droghe definite “leggere”, come marjuana o hashish. In genere, a questa età, il primo contatto con i cannabinoidi è a scopo ludico e ricreativo, può servire come facilitatore sociale, riducendo la fatica dello stare in relazione tra coetanei o per limitare l’ansia da prestazione. In breve tempo però il consumo, soprattutto se prolungato nel tempo, diventa quasi necessario, instaurandosi una forma di dipendenza psicologica. L’utilizzo di cannabis può diventare necessario per poter uscire con gli amici, riuscire a divertirsi la sera o chiedere di uscire ad una ragazza. Nel medio lungo periodo si possono poi instaurare tutta una serie di sintomi psicologici negativi che possono influenzare di molto la qualità di vita dei ragazzi”.
Potrebbe farci qualche esempio? In genere si ritiene infatti che l’utilizzo di droghe leggere non produca effetti nocivi.
“Nella realtà purtroppo questo è un falso mito. Ci sono numerosi studi che dimostrano come l’utilizzo di cannabinoidi in età precoce favorisca lo sviluppo di alcune gravi malattie psichiatriche. In soggetti predisposti, l’abuso di cannabis può “slatentizzare”, per esempio, gravi disturbi psicotici. Sono disturbi molto gravi caratterizzati dalla presenza di deliri, allucinazioni e disturbi comportamentali. E non mi dilungo volutamente sulle ormai certe alterazioni organiche cerebrali a livello di nucleo accumbens o di amigdala (centri coinvolti nella gestione delle emozioni) nei fumatori cronici. Molto più frequenti e a mio parere estremamente preoccupanti sono i sintomi ascrivibili alla cosiddetta sindrome amotivazionale. La sindrome amotivazionale è caratterizzata da un lento e progressivo disinteresse verso le relazioni sociali e la vita in generale. Si perde il piacere nel fare le cose e la vita si riduce di stimoli e di interessi. Mi capita spesso di incontrare ragazzi che, a fronte di un uso continuato di cannabis, lamentano disinteresse verso le altre persone e la vita in generale. Non si tratta di un vero e proprio disturbo depressivo, ma ne condivide alcune caratteristiche. L’aspetto più rischioso della sindrome amotivazione è che si instaura lentamente. I ragazzi non si accorgono di questo effetto, perché il calo dell’interesse e della motivazione è talmente lento da diventare impercettibile. Purtroppo manca una corretta informazione sul tema delle droghe soprattutto su quelle che chiamiamo erroneamente droghe “leggere” come marijuana o hashish”.
A tal proposito secondo lei la cannabis è una droga leggera o pesante?
“Ciò che determina la “pesantezza” di una droga è la concentrazione di principio attivo. Nella cannabis, per esempio, il principale responsabile dell’effetto psicotropo è il THC (Tetraidrocannabinolo, ndr). Sono molto dispiaciuto, ed è un eufemismo, che tutti i giovani con cui parlo mi rispondano “non lo so” alla mia canonica domanda “che concentrazione di THC c’è nelle canne che fumi?”. Negli anni, attraverso incroci e sperimentazioni, si sono sviluppate piante di marijuana che contengono concentrazioni altissime di THC, di gran lunga superiori rispetto a quelle che si trovavano negli anni ’70 (ad esempio la skunk). Definire se la cannabis è una droga leggera o pesante è quindi impossibile se non andiamo ad analizzare la presenza di THC. C’è una teoria, a cavallo degli anni ’80 e ’90, chiamata “la teoria del 16%”, che afferma che concentrazioni di THC superiori al 16% siano dannose e provochino effetti negativi a medio e lungo termine. Al dì là delle singole percentuali, oggi abbiamo in circolazione hashish in cui la concentrazione di THC raggiunge il 60% , in alcuni olii addirittura il 90%. Tanti giovani che utilizzano cannabis non sanno più che cosa stanno fumando. Questo è, dal mio punto di vista, l’aspetto più preoccupante di questa diffusione”.
Quindi rispetto al dibattito sulla liberalizzazione delle droghe “leggere”?
“E’ ormai accertato il beneficio dell’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico (esempio nella cura del glaucoma o della sclerosi multipla). Riguardo all’uso ricreazionale mi sento di affermare che, a livello politico, nessuno, da quello che leggo, solleva il problema della concentrazione di THC, che è invece a mio modesto parere il vero problema da affrontare. Quando sento parlare di liberalizzazione non le nascondo alcune perplessità. Legalizzare una sostanza, senza un effettivo controllo sulle concentrazioni, è un rischio che, da clinico, non mi sentirei di prendere. Esistono tantissimi tipi di marjuana o hashish, con concentrazioni di THC molto diverse tra di loro. Le legalizziamo tutte? Anche quelle al 60%? Per me è una follia. Finché nella discussione non introduciamo seriamente il tema delle concentrazioni, non posso che essere sfavorevole. In caso contrario, qualora si introducesse in modo serio questo tema, sarei disposto a confrontarmi e sono aperto anche ad una possibile liberalizzazione. Ma ripeto, bisogna allargare la discussione e approfondire il tema”.
Oltre ad agire a livello politico, quali altri strategie possono essere messe in atto per prevenire danni futuri?
“Ritengo che l’aspetto più importante sia l’informazione. Mi capita spesso di essere invitato da scuole a parlare dei problemi di droga ai giovani studenti. C’è molta disinformazione tra i ragazzi, falsi miti che si diffondono tra coetanei e che devono essere sfatati. Quando mi capita di poter intervenire direttamente presso qualche scuola, mi preoccupo di spiegare quali sono gli aspetti più problematici, illustrare gli effetti negativi delle droghe, soprattutto i disturbi psicologici nel medio e lungo termine; ma non è sufficiente. Credo sia importante formare gli stessi insegnanti a riconoscere i segnali di un eventuale abuso di sostanze. Sono loro i primi che devono diventare educatori-osservatori, imparare a cogliere i segnali d’allarme e poi intervenire, ad esempio coinvolgendo lo psicologo della scuola o altre risorse presenti nel territorio”.
Dottor Lambertino, lei è responsabile del reparto di tossicologia dell’Ospedale Maria Luigia, ci può illustrare il trattamento che seguite?
“All’interno del reparto afferiscono pazienti da tutt’Italia, affetti da diversi tipi di dipendenza. Accogliamo pazienti con dipendenza da eroina, cocaina e cannabis e per ognuno è previsto un protocollo di trattamento disintossicante e di riabilitazione. Il percorso di ricovero dura circa un mese e i pazienti sono divisi in due reparti differenti; in un reparto, di recente ristrutturazione, sono ospitati pazienti con dipendenza da eroina o da cocaina iniettata per via endovenosa, in un altro reparto sono accolti pazienti affetti da dipendenza da cocaina inalata e pazienti con dipendenza da cannabinoidi. Tutti i pazienti sono seguiti individualmente da un medico psichiatra, da uno psicologo e da un riabilitatore psichiatrico e partecipano ogni giorno a gruppi di psicoterapia basati sulle terapie cognitivo comportamentali di terza generazione e sulla mindfulness. Dopo il ricovero e la disintossicazione è imprescindibile proseguire il percorso di cura, sia a livello farmacologico che psicoterapeutico, a livello ambulatoriale”.