Un agente della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di via Burla, a Parma, è rimasto ferito oggi in seguito all’aggressione subita da parte di un detenuto. Lo denuncia la segreteria generale del Sinappe, il sindacato di categoria degli agenti, secondo la quale l’aggressore sarebbe “già noto per la propria irruenza soprattutto verbale”, ma oggi avrebbe “dato in escandescenze scagliandosi contro l’agente di sezione, parrebbe ‘armato’ di una ordinaria bomboletta a gas, provocando a questi una ferita lacerocontusa al volto. Il protagonista del vile gesto è un detenuto appartenente al circuito alta sicurezza che si trovava ospitato nel reparto isolamento, che ha frequentemente manifestato atteggiamenti aggressivi ed intolleranti nei confronti della Polizia penitenziaria; non si esclude che possa trattarsi di soggetto psichiatrico di cui sarebbe a questo punto doveroso il trasferimento in altra sede”.
Il Sinappe esprime “solidarietà al malcapitato collega che ha dovuto fronteggiare l’emergenza, portando a casa una rilevante prognosi clinica”, ma rilancia anche la questione del rischio professionale che corrono gli uomini in servizio nel carcere.
“L’interrogativo che si vuole fornire, magari anche in chiave provocatoria – si legge nella nota del Sinappe – è relativo all’efficacia rieducativa del vigente sistema di gestione della popolazione detenuta; ovvero, in un clima garantista e trattamentale (assolutamente in linea con il mandato Costituzionale della Polizia Penitenziaria e con la funzione rieducativa della pena) può leggersi come un fallimento del sistema un evento turbativo dell’ordine e della sicurezza? In altre parole, può leggersi un sinallagma fra gli eventi critici (in un dato preoccupante che non conosce cali negli anni) ed un sistema gestionale della popolazione detenuta che pone al primo piano le attività trattamentali? Affermazioni deflagranti – queste – che si prestano persino a facili strumentalizzazioni di coloro che ci accuseranno di voler vedere realizzato un progetto di “detenzione dura”; in realtà, vanno lette unicamente come una provocazione che serva da spinta all’Amministrazione tutta a ripensare ad una modalità di gestione della popolazione detenuta che – fermo il sacrosanto principio della funzione rieducativa della pena – miri sì a restituire alla società persone migliori (dopo il percorso detentivo) ma salvaguardi l’incolumità fisica dei suoi operatori”.