Dal 5 marzo al 5 giugno 2016, al Palazzo del Governatore di Parma, la mostra Giappone segreto farà luce su uno dei capitoli più importanti della storia della fotografia. L’esposizione presenterà 140 fotografie originali, autentici capolavori e vertice della fotografia nipponica, sviluppatasi tra il 1860 e il 1910. In questo periodo, infatti, il Giappone fu testimone di un insolito connubio tra la tecnica fotografica occidentale e la maestria dei pittori locali, eredi di un’antica e raffinata tradizione, capaci di applicare perfettamente il colore anche su minuscole superfici.
I risultati artistici furono di sorprendente bellezza e i soggetti rappresentati così verosimili da non riuscire a distinguerli dalle moderne immagini stampate a colori. La produzione di tali opere rispondeva alle esigenze dei viaggiatori occidentali – i cosiddetti globetrotter – di portare con sé il ricordo di un Paese straordinario, che la modernizzazione forzata stava rapidamente trasformando in una nazione industriale.
L’iniziativa è parte del programma ufficiale delle celebrazioni del 150° anniversario della firma del Trattato di Amicizia e di Commercio tra Italia e Giappone, siglato nel 1866, che sanciva l’avvio delle relazioni diplomatiche tra i due paesi e celebra il recente accordo di scambio tra Parma e la Prefettura di Kagawa in campo economico, culturale e di promozione del territorio.
Il legame tra Parma e il Giappone ha peraltro profonde radici storiche. Ne è una prova la figura di Enrico II di Borbone, fratello minore di Roberto I di Borbone, ultimo regnante del Ducato di Parma. Questi, accompagnato dalla moglie Adelgonda di Braganza, figlia del re Michele del Portogallo, si rese protagonista, tra il 1887 e il 1889, di un celebre viaggio in Asia, in particolare in Giappone, da cui riportò un’enorme numero di opere d’arte che hanno costituito il patrimonio da cui è nato, nel 1925, il Museo d’Arte Orientale di Venezia. Dei coniugi verranno esposti i ritratti in abiti tradizionali e il carteggio scritto da Adelgonda di Braganza, attualmente conservato a Parma dall’Ordine Costantiniano di San Giorgio.
La rassegna, curata da Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano, e Marco Fagioli, col patrocinio del Comune di Parma, è prodotta da GAmm Giunti, in collaborazione con il Museo delle Culture di Lugano e la Fondazione Ada Ceschin e Rosanna Pilone di Zurigo che ha voluto depositare a tempo indeterminato il suo patrimonio di opere d’arte giapponesi al Museo delle Culture di Lugano, affinché potesse essere messo a disposizione del mondo degli studi e dell’arte.
Il percorso espositivo, che ruota attorno ai capolavori della scuola di Yokohama, uno dei vertici della fotografia dell’Ottocento, e all’esperienza del viaggio dei ‘globetrotter’, seguirà un itinerario tematico, intervallato da tre piccole aree che presenteranno otto preziosi album-souvenir con le copertine in lacca giapponese, 20 rare carte de visite, 12 stampe xilografiche policrome dei migliori maestri dell’ukiyo-e quali Hokusai, Hiroshige e Utamaro.
Le fotografie saranno messe in relazione anche ad alcuni esempi di arte decorativa giapponese, tra cui spiccano un’armatura da samurai del XVIII secolo, le maschere del teatro classico nō e alcuni splendidi kimono.
Si inizierà con la sezione che ripercorrerà Il viaggio dei globetrotter lungo le strade del Giappone, attraverso vedute dall’alto di paesi e città, di villaggi, castelli e spazi urbani, oltre a scenari marini e fluviali con tutto il contorno di vie d’acqua, ponti, canali e imbarcazioni. Quindi s’indagherà il dominio della natura con la rappresentazione del paesaggio e di una natura ‘educata’ dalla cultura e si proseguirà analizzando la vita quotidiana, fatta di scene rurali e ritratti di contadini, interni delle case e di individui impegnati in altre attività economiche, il mondo dell’arte che presenterà, oltre alle immagini di momenti di teatro, musica e danza, anche i protagonisti di questi spettacoli e venti rare carte da visita che ritraggono attori del teatro nō, la religione e la ritualità, con i ritratti dei diversi operatori del sacro e le immagini delle occasioni liturgiche e cerimoniali, gli eroi dell’ultraesotico, con i ritratti di alcuni dei personaggi tipici della cultura giapponese del tempo, come sàmurai, kendoka, lottatori di sumo, tatuati.
Chiuderà idealmente la mostra la sezione dedicata all’immagine della donna, che permetterà di cogliere le coordinate ideologiche di un modello idealizzato di bellezza femminile asiatica che s’imporrà attraverso una sorta di cliché, destinato a durare a lungo nel tempo.
La mostra offrirà l’occasione di approfondire un momento della fotografia nipponica passato sotto il nome di Scuola di Yokohama e dei suoi maggiori interpreti – Felice Beato (1832-1907), Raimund von Stillfried-Ratenicz (1837-1911), Adolfo Farsari (1841-1898), Ueno Hikoma (1838-1904), Kusakabe Kimbei (1841-1934), Tamamura Kōzaburō (1856-1923) e Ogawa Kazumasa (1860-1929), la cui caratteristica risiedeva nell’unire la fotografia, la forma artistica più d’avanguardia di quel tempo, con la tradizione delle grafiche giapponesi, realizzando stampe fotografiche su carta all’albumina delicatamente colorate singolarmente a mano da raffinati artigiani.
La mostra sarà allestita al Palazzo del Governatore, in piazza Garibaldi, e potrà essere visitata dal 5 marzo al 5 giugno, dal martedì al venerdì, dalle 10.00 alle 18.00, sabato, domenica e festivi, dalle 10.00 alle 20.00. Giorno di chiusura sarà il lunedì.
L’ASSESSORE LAURA FERRARIS: UNA LEZIONE DI CUI C’E’ BISOGNO
Di fronte alle opere della Scuola di Yokohama si resta sinceramente stupiti. La loro straordinaria bellezza si situa in un confine sospeso fra la fotografia e la pittura, fra la rappresentazione del vero e il tentativo di ricostruire artificiosamente un mondo che, trasformato dalla modernizzazione forzata dell’epoca Meiji, già al momento in cui era per l’ultima volta raffigurato, non esisteva più. Molte volte nel corso della storia intere civiltà sono scomparse in un volgere brevissimo di tempo. Basti pensare agli effetti della «pace» imposta dai Romani, ai giorni tristi della conquista dell’impero degli Aztechi o degli Inca o al dissolversi muto dei fragili equilibri delle culture native dell’Africa e dell’Oceania. Trapassi repentini e dolorosi che furono talvolta documentati dalle cronache e dai racconti letterari ma che mai, in nessun momento della storia, diedero luogo a un ritratto artistico di una qualità comparabile a quella che non solo i cittadini di Parma potranno per tre mesi ammirare nelle sale del Palazzo del Governatore. Nelle fotografie della Scuola di Yokohama vive un mondo in bilico, nutrito dalla nostalgia: un mondo che restituisce di sé un’immagine che è già un ricordo. Un «Giappone segreto», come abbiamo desiderato fortemente che si intitolasse l’evento, nella convinzione che il progetto culturale che anima l’esposizione temporanea possa aprire più di una finestra sulla consapevolezza di ciò che più profondamente produce ogni trasformazione culturale. Una consapevolezza che, inevitabilmente, è agita dalla dialettica di energie contrapposte – come il passato e il futuro, la tradizione e la modernità – che giocano sempre fra loro, non accontentandosi di rimanere sull’uscio delle nostre case. Una consapevolezza che, esaurita la riflessione estetica, non può che divenire politica, per farci riflettere sul costo di un’uniformazione a tutti i costi al dettato dei pensieri e delle forze dominanti, alla tirannia delle mode. Il mondo di ineffabile perfezione che traspare dalle opere degli artisti della Scuola di Yokohama è il portatore di una lezione di misura e di sostenibilità che oltrepassa la dimensione artistica per suscitare dentro di noi un moto che, al di là dell’esotismo, rintraccia una ragione più profonda di essere, in armonia con se stessi, con la natura che ci circonda e con la propria storia. Una lezione di cui riteniamo che oggi vi sia davvero un gran bisogno.
FRANCESCO PAOLO CAMPIONE: UNA MOSTRA IN CINQUE PAROLE
Presentare un tema ricco e complesso, come quello che «Giappone segreto» offrirà al pubblico dal 5 Marzo al Palazzo del Governatore di Parma, può forse risultare più facile adoperando come guida cinque semplici «parole chiave».
La prima parola è «tesoro». L’esposizione è infatti innanzi tutto il risultato di una che ha come scaturigine un tesoro di oltre cinquemila fotografie all’albumina colorate a mano, per metà circa contenute all’interno di oltre novanta coevi album-souvenir racchiusi da coperte splendidamente decorate da maestri dell’arte giapponese della lacca. Si tratta di una delle tre maggiori collezioni del genere esistenti oggi al mondo e la più grande fuori dal Giappone. Raccolta con erudita passione da Marco Fagioli a partire dal 1971, la collezione è stata interamente acquisita nel 2012 dalla Fondazione «Ada Ceschin e Rosanna Pilone» di Zurigo che l’ha destinata in comodato permanente al Museo delle Culture di Lugano. La sua catalogazione scientifica è l’oggetto di un lavoro minuzioso e paziente, iniziato nel 2008 e tutt’ora in corso. Ad esso si sono applicati alcuni ricercatori del Museo delle Culture di Lugano che, con la collaborazione di una serie di specialisti della materia, afferenti a università e centri di ricerca di diversi paesi europei, stanno – di fatto – compiendo un sistematico lavoro di definizione delle peculiarità e dei valori che caratterizzano nel suo insieme la Scuola di Yokohama. Primo felice esito di tale attività è stata una serie di seminari scientifici e di fortunate esposizioni temporanee che si sono tenute, a partire dal 2010, in Svizzera, in Italia, in Francia e in Danimarca, coinvolgendo, nel progetto, partner della levatura dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’Accademia Reale di Belle Arti di Copenaghen, ricercatori e colleghi provenienti da numerosi paesi europei e dal Giappone. Un lavoro di ricerca, va detto che non è stato utile soltanto sviluppare una proficua discussione, a più livelli, sui dati che via via emergono dagli studi, ma che ha facilitato, al contempo, la costituzione di una rete internazionale, la crescita dell’interesse del pubblico e degli sponsor e, non ultimo, nuovi e ulteriori depositi e donazioni al Museo delle Culture di Lugano da parte di altri collezionisti.
La seconda parola è «nostalgia». Il veloce cambiamento che investì la cultura e la società giapponese, che – fra l’altro – dall’inizio del periodo Meiji (1868-1910), fu notevolmente accelerato, divenendo un vero e proprio programma politico, trasformò nel volgere di trent’anni un paese sostanzialmente feudale nella potenza industriale più evoluta dello scacchiere asiatico. Uno dei più macroscopici corollari di tale cambiamento fu il diffondersi, a più livelli, di un senso diffuso di nostalgia per il passato, che si avvertì sia negli occidentali sia nei giapponesi. Per gli occidentali, la scomparsa del Giappone tradizionale significò la perdita di quell’identità di riflesso che permette d’intuire all’istante cosa si è e cosa non si è, oggettivando di conseguenza l’«altro», per percepirne (e in certi casi pregustarne) la distanza estetica dalla propria visione del mondo. Una perdita che demoliva le fondamenta stesse dell’esotismo, che non è, alla fin fine, la percezione di qualcosa che è fuori di noi, ma piuttosto la consapevolezza di un’irresolubile incomprensibilità. Per i giapponesi, convinti in massa che l’adesione alla modernità fosse una forma di autodifesa di un’identità più profonda – che era stata già capace in passato d’integrare i tratti culturali esterni, come nel caso della Cina – coltivare la nostalgia significò invece riconoscere il valore della propria storia, e dare una forma di giustificazione alle trasformazioni allora in atto. Il sentimento della nostalgia fu inoltre espressione di un altro dei valori fondamentali della cultura giapponese. Si tratta del valore espresso dalla parola furusato, che vuol dire letteralmente «vecchio villaggio», «villaggio natale», ma che comunica un complesso di significati che racchiude l’idea del luogo di origine, delle cose di casa, della confortevole familiarità del quotidiano, dell’adesione spontanea ai canoni di una vita serena, ordinata e tradizionale. La sua quintessenza sono le montagne ricoperte di boschi, i campi accarezzati dal fluire dei meandri delle acque, le terrazze delle piantagioni di tè e i quieti villaggi di campagna con le case dai tetti di paglia, che costituirono evidentemente una parte essenziale dell’immagine del Giappone data dalle fotografie della Scuola di Yokohama. L’esercizio incrociato, da parte degli occidentali e da parte dei giapponesi, della poetica della nostalgia produsse una forte omogeneità dei soggetti e della costruzione delle scene che, invariabilmente, denotò sin dai suoi esordi una forte tensione estetizzante. Si trattò di un fenomeno di vasta portata in cui una visione culturalmente condivisa escluse parte della realtà, per focalizzarsi ideologicamente su una sua porzione. E non solo. Quando, infatti, non fu più possibile nemmeno la visione parziale – a causa dei profondi mutamenti del paesaggio e della vita quotidiana – la realtà focalizzata fu consapevolmente ricostruita in studio, ricorrendo a una serie di artifici scenici. Il dolore della perdita divenne così uno dei principali sentimenti condivisi da giapponesi e occidentali che, seppur da punti di vista diversi, alimentò una ricercata strategia estetica. La fotografia, che sembrava inventata per nutrire la nostalgia, diede a chiunque il privilegio insostituibile di fissare gli istanti che si salvano nella memoria: la sottile inquietudine del ricordo del paese natale, i viaggi d’una volta e l’immagine insistente di un non so che cercato nell’evanescenza del passato.
La terza parola è «matrimonio» Le opere che saranno esposte al Palazzo del Governatore non sarebbero, infatti, mai esistite se in Giappone, intorno al 1862, non fosse avvenuto un singolare, e straordinariamente prolifico, matrimonio. La tecnica fotografica occidentale, che non aveva allora più d’una trentina d’anni, convolò felicemente a nozze con la secolare maestria dei pittori locali, capaci di applicare perfettamente il colore anche su minuscole superfici. I risultati artistici furono di sorprendente bellezza e i soggetti rappresentati così verosimili da non riuscire a distinguere le opere migliori dalle moderne fotografie a colori. A realizzare tali capolavori furono oltre un migliaio di artisti, occidentali e giapponesi, che ritrassero un mondo che si trasformava a vista d’occhio. Grazie anche all’affermazione e alla diffusione delle moderne tecniche di stampa, le fotografie originariamente concepite per assortire gli album-souvenir dei viaggiatori stranieri in Giappone (oltre mezzo milione dal 1860 al 1910), furono poi utilizzate, per alcuni decenni per la stampa delle cartoline e per illustrare una ricca pubblicistica fatta di guide, di resoconti di viaggio e, soprattutto, di descrizioni della vita quotidiana e dei costumi di un mondo che appariva all’Occidente come la quintessenza di un Oriente senza tempo: una terra di geisha e samurai, di pagode e misteriosi costumi, per certi versi barbaro, ma per molti altri educato ed elegante, arrivato comunque miracolosamente intatto alla soglie della civiltà industriale. Si trattò di una produzione immensa che alle stampe all’albumina, in diversi formati, colorate a mano (che rappresentano il vertice della produzione) associò ben presto opere realizzate su supporti diversi, con le tecniche della collotipia, della fotolitografia, della litografia a colori (photochrome) e della pittura a olio fotografica. La collotipia che, grazie all’assenza di retinatura, conferiva alla stampa una consistenza grafica dai tratti quasi materici, fu largamente utilizzata anche per la realizzazione di caratteristici volumi di stampe su carta crespa che, dal 1880, costituirono un’alternativa a basso costo degli album fotografici. Un ultimo e importante genere di supporto fu il vetro, adoperato dapprima per i semplici ambrotipi e, dal 1874 in poi, per la realizzazione di una grande quantità di lastrine (positivi) colorate a mano, chiamate gentō-ban, proiettate grazie alla lanterna magica. Alle fotografie e alle diapositive per le lanterne magiche furono infine associati una serie di oggetti di “bigiotteria fotografica” (i fazzoletti, ventagli di seta dipinta e scatole, tabacchiere, borsette, gemelli, spille, medaglioni, ciondoli) che costituirono un variegato merchandising che servì da una parte a rispondere alle diverse esigenze della clientela e, dall’altra, a differenziare e incrementare ulteriormente le entrate degli studi fotografici.
La quarta parola è «eccellenza» Se dal punto di vista tecnico quella che passerà alla storia della fotografia come «Scuola di Yokohama» (Yokohama Shashin), dal nome del suo maggiore centro di propagazione, rappresentò uno dei vertici, se non il vero e proprio culmine, della fotografia dell’Ottocento, dal punto di vista culturale essa costituì un unicum, sia per l’omogeneità e la riconoscibilità del suo linguaggio, sia per l’originalità e per il valore dei principi estetici e stilistici che seppe esprimere. Vi dominano il rapporto con la tradizione iconografica dell’ukiyo-e, il valore propositivo del vuoto e dell’ombra, la ricerca degli schematismi e delle geometrie e la «visione ideografica» dello spazio. Quest’ultima caratteristica – sia per la sua straordinaria originalità sia per essere uno dei risultati della ricerca condotta dal Museo delle Culture – merita una precisazione. La composizione delle scene, oltre a dipendere dalle caratteristiche della fotocamera, dal genere d’illuminazione e dallo stile del fotografo, presentava infatti una relazione, diretta o indiretta, con la forma dell’ideogramma, o del radicale, che rappresentava il soggetto principale della fotografia. Era un po’ come se l’occhio dei fotografi giapponesi, educato sin dalla nascita ad associare a un concetto un determinato carattere, fosse portato a riprodurre in filigrana la forma dell’ideogramma nel momento in cui prendeva di mira e disponeva le figure nello spazio. Ciò significa che fotografi diversi, alle prese con un medesimo soggetto, componevano le figure disponendole nello spazio secondo un modello uniforme, come guidati da un invisibile stampino. L’uso della composizione ideografica connetteva così la visione con un sistema di segni culturalmente condiviso. Al contrario di quanto accadeva per le forme dell’arte occidentale, che erano per lo più descrizioni oggettive della relazione fra l’artista e ciò che era concretamente rappresentato, la struttura generale dell’immagine fotografica della Scuola di Yokohama esprimeva piuttosto la relazione che intercorre fra l’artista e l’idea del soggetto rappresentato. La ricerca di una dimensione simbolica dell’immagine, che costituisce forse il risultato esteticamente più notevole dell’arte occidentale, era così sorpassata, si potrebbe dire quasi «programmaticamente», dalla definizione di un’immagine concepita a priori per essere oggetto di contemplazione.
La quinta, e ultima, parola è «fortuna». Anche se sono personalmente convinto che esiste il Fato e non il Caso, bisogna pur riconoscere che tutto il progetto culturale, museografico ed espositivo sulla Scuola di Yokohama, ha goduto in questi anni delle conseguenze di episodi inattesi ed estremamente fortunate. La lista, vi assicuro, è lunga e spesso costellata da incontri con persone che hanno sostenuto il progetto e l’hanno fatto avanzare oltre le più rosee aspettative, dal punto di vista scientifico, collezionistico ed economico. L’incontro di cui vorrei però qui dirvi è quello con due persone morte da tempo: Enrico di Borbone e Adelgonda di Braganza, ai quali dobbiamo in parte il merito di essere qui oggi. Le foto dei due giovani e aristocratici globetrotter erano infatti conservate, insieme a quella del conte Alessandro Zilieri dal Verme, nella sezione delle cosiddette «erratiche» della nostra collezione. «Erratiche» perché non contenute in album e non ancora chiaramente catalogate. Durante la scrittura del mio volume sulla fotografia della Scuola di Yokohama, uscito alla fine del 2015, ne fui fortemente incuriosito, per due ragioni: la prima fu l’eccellenza della qualità dei ritratti, eseguita dai due migliori maestri attivi a Yokohama alla fine degli anni’80 dell’Ottocento (Adolfo Farsari e Kusakabe Kimbei), la seconda fu un riverbero di consapevolezza lontana di aver già veduto da qualche parte, nella mia vita, il volto dell’uomo. E cerca, che ti ricerca, ecco affiorare dai miei ricordi la soluzione. Il volto dell’uomo era lo stesso di quello dell’europeo ritratto in abiti da samurai in un dipinto che era esposto nel 1992 all’ingresso di una delle sale del Museo d’Arte Orientale di Venezia. Il volto dell’instancabile e quasi ossessivo collezionista che nel 1900 aprì a Ca’ Vendramin Calergi la prima collezione di arte orientale aperta al pubblico in Italia. Il principe Enrico, conte di Bardi. Il fratello dell’ultimo regnante del Ducato di Parma. E la donna chi altro poteva essere, se non sua moglie, la trentenne Adelgonda di Braganza? Detto fatto. Il riscontro con le foto d’epoca confermò l’intuizione. Un incontro fortuito, non solo perché ha innescato il giusto interesse del Comune di Parma al tema del viaggio in Giappone dei globetrotter e al capitolo eccellente della Scuola di Yokohama, ma anche perché ha permesso di avviare un nuovo filone di ricerche. Oltre che dalle 30.000 opere conservate ancora per oltre i 2/3 a Venezia, a Padova e a Firenze, il viaggio di Enrico e Adelgonda ha lasciato due preziose testimonianze scritte: le lettere della principessa alla cognata Margherita, conservate nella Biblioteca dell’Ordine Costantiniano di Parma e il diario di viaggio del Principe, scritto da Alessandro Zilieri Dal Verme e ancora custodito dai suoi discendenti. Dell’uno e dell’altro abbiamo già avviato la trascrizione e lo studio che contiamo di presentare a Venezia esattamente fra un anno, in una nuova puntata della nostra fortunata collezione.